FW: F.A. Ottobre 09 – «L'emergenza educativa e la comunità cristiana» – mons. Domenico Sigalini

PROVINCIA SS. APOSTOLI PIETRO E PAOLO

Opera San Luigi Orione

 PROGETTO DI RINNOVAMENTO

 FORUM DI AGGIORNAMENTO A DISTANZA”

V° anno

 Tema di Ottobre 2009: La questione educativa

 Con il mese di ottobre si riprendono in pieno tutte le attività e specialmente la scuola. Il Comunicato finale del Consiglio permanente della CEI (29 sett. 2009) dice che “ E’ stata esaminata una prima traccia degli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020, che porranno al centro la questione educativa, perno di una rinnovata stagione di evangelizzazione.” E proprio all’emergenza educativa è stato dedicato l’ultimo Convegno organizzato dal Centro di Orientamento Pastorale (COP). Propongo perciò come riflessione di questo mese la sintesi dei lavori di quella settimana scritta da mons. Domenico Sigalini.

Aggiungo anche la lettera di una “normale” famiglia che può far riflettere.

  

L’emergenza educativa e la comunità cristiana

Il cristiano secondo la misura di Cristo

Conclusioni pastorali della Settimana 

Non si può oggi affrontare il tema dell’educazione se non si parte da uno sguardo appassionato alla situazione. Lo possiamo fare a partire da una precomprensione: l’atteggiamento suggerito dal concilio ecumenico Vaticano II proprio sull’importanza dell’educazione.

Sul significato della parola emergenza si sono pronunciati quasi tutti: pastori, pedagogisti, operatori pastorali, gente comune. Molti dicono che c’è emergenza perché siamo incapaci di educare, o siamo superficiali e accomodanti, o perché chi deve educare non lo fa più o lo fa male, perché c’è tanta gente irresponsabile che diseduca. Può essere vero anche questo, ma non è il nodo cruciale. Fra i tanti modi di pensare alla situazione problematica dell’educazione scegliamo di stare dalla parte di una visione positiva. Noi diciamo che c’è emergenza perché è aumentata la domanda, perché i giovani sono di fronte a un’eccedenza di opportunità, devono giocare di più la loro libertà sono messi di fronte abitualmente, non solo in alcuni momenti della loro vita, a un numero di scelte maggiore. Siamo in un mondo più libero e per questo più bisognoso di attrezzarsi per decidere bene. Non siamo in contesti chiusi in cui il giovane, il figlio, l’allievo dipende solo o quasi dalle informazioni, dai modi di pensare, dalle visioni di mondo del padre o del maestro. Ogni persona ha davanti a sé ancor prima di percepirne il valore innumerevoli possibilità di comportamento, di valutazione, di stimoli, di proposte. La Gravissimum educationis, il testo del concilio che parla esplicitamente di educazione, dice che è più facile oggi e più urgente educare e che l’incidenza dell’educazione sulla vita è più grande. Educare ha un valore aggiunto.

Uno dei nodi che la società di oggi presenta all’educazione è non solo la sua complessità, ma anche una sorta di delegittimazione dell’autorità. Non esiste nessun processo educativo che non abbia bisogno del contributo di una autorevolezza che è capace di valutare e orientare anche dicendo dei no, cioè facendo approfondire e crescere le ragioni delle scelte e la loro personalizzazione. Il padre ha il dovere di aiutare il figlio, l’insegnante l’alunno, l’educatore l’educando anche contro la sua volontà, entro un grande rispetto di una vera libertà. L’autorità soffre di non riconoscimento perché hanno perso autorevolezza le istituzioni che essa rappresenta: la famiglia, la scuola, la comunità cristiana. L’educatore deve poter esercitare la sua responsabilità come soggetto nel processo educativo, non è un semplice «direttore del traffico». In periodi di grandi cambiamenti sicuramente vanno in crisi le istituzioni e vanno quindi ripensate, ma è ingenuo credere che si possa educare se le istituzioni e gli uomini che le rappresentano non vengono riconosciuti come importanti nei processi di scelta che riguardano la vita personale, sociale, culturale e spirituale.

La Chiesa ha il dovere di occuparsi dell’educazione perché ha il dovere di occuparsi della vita ed educare è una esigenza vitale. Tutti gli uomini in forza della loro dignità umana hanno il diritto inalienabile all’educazione. Ogni uomo deve poter portare a pienezza la sua vocazione e ha bisogno non solo di trasmissione di conoscenze, ma di un processo, di una capacità di valutare con retta coscienza, accogliere la verità e rispondere con responsabilità alla sua vocazione. Il processo educativo non è negoziabile.

 

 

La vita di fede e i suoi compiti di fronte all’emergenza educativa

 

La domanda che ora ci facciamo è: la fede in Gesù Cristo morto e risorto, centro della vita e della comunità cristiana come deve dare il suo contributo indispensabile all’emergenza educativa? Si interessa di altro o aiuta l’uomo a fare quelle scelte di libertà che sono indispensabili per la pienezza della sua vita e per il bene della società? E autosufficiente, compie un cammino parallelo a tutte le altre istituzioni educative? Come aiuta il giovane a fare le scelte giuste nell’aumento vertiginoso delle opportunità, degli stili di vita, nelle impostazioni del proprio esistere? Tutta la catechesi che si fa nella comunità cristiana, la preparazione ai sacramenti, le celebrazioni liturgiche come possono dare risposte a questa emergenza educativa? I momenti formativi caratteristici di una comunità cristiana sono paralleli alla vera educazione o ne determinano il cuore e ne rinforzano i processi? Possiamo accettare ancora che tutta l’iniziazione cristiana sia una parentesi da dimenticare nell’esplodere della giovinezza e della sete di libertà? O ancora peggio, possiamo accettare che la fede sia una dimensione privatistica, intimistica e alla fine insignificante per la globalità della vita dell’uomo? Alla fine, l’atto educativo per il quale si lavora tanto nella comunità cristiana ha una sua unità che consente di tenere assieme fede, cultura e vita o siamo destinati a vivere di frammentazione e di finzioni a seconda dei luoghi in cui viviamo e delle attività che compiamo? E in gioco la possibilità del cristiano di stare con dignità nel consesso umano, di essere capace di dare il suo apporto alla comunità umana, di sentirsi uomo fino in fondo, mentre è cristiano fino alla santità.

Per rispondere a queste domande occorre rifarsi al pilastro determinante della vita della Chiesa: la centralità del mistero di Cristo, celebrato e vissuto nell’esperienza liturgica, nell’Eucaristia e nei sacramenti, doni indispensabili per la vita del cristiano anche nella sua essenziale dimensione di carità.

Ci obbliga ad andare a questa centralità e profondità il concilio ecumenico Vaticano II, che di fronte a una società che tendeva a una scristianizzazione veloce e a un mondo credente che non focalizzava negli elementi essenziali il suo compito evangelizzatore mette davanti a tutti, credenti e non, la figura di Cristo come uomo perfetto, riuscito, esaltato nella sua dignità, nella pienezza delle sue realizzazioni.

Riprendere seriamente e con profondità e attuare le indicazioni del concilio è una scelta senza condizioni che abbiamo sempre fatto e che vogliamo continuare a fare.

Diventare come Gesù, conformarsi a Lui è il desiderio di ogni cristiano e aiutare ad amare come Lui, a vivere come Lui, a crescere come Lui è il compito educativo. Gesù Cristo è la persona che si costituisce come ideale cui tutti possono tendere.

La comunità cristiana tradirebbe se stessa e impoverirebbe l’umanità se si adattasse a educare un uomo che non ponga come determinante della sua struttura di personalità la figura di Gesù.

 

 

Il percorso educativo globale che aiuta a fare sintesi tra vita e Parola, liturgia e testimonianza

 

Chiamiamo mistagogia, termine forse un po’ ostico e datato, il cammino di formazione permanente per risvegliare l’esperienza di Dio, per favorire la sintesi tra Parola, liturgia e vita e consentire un discernimento comunitario che aiuti la comunità cristiana a comprendere le sfide del momento presente e a rispondervi alla luce del mistero di Cristo, creduto, celebrato e vissuto. È ritessere un legame vitale con la tradizione, con quella memoria viva dalla quale scaturisce la cultura, la sapienza di vita, l’educazione della persona. È ripensare globalmente e profondamente il «senso dell’educazione», non come richiamo moralistico e astratto, ma per rispondere a un criterio testimoniale dell’esperienza di fede, attenta ai mutamenti sociali e culturali in atto (…).

In pratica vogliamo dire che la Chiesa assolve al suo compito educativo

  • se introduce il credente in maniera progressiva e sempre più intima nella conoscenza e nell’esperienza del mistero di Cristo, altrimenti la centralità di Gesù è solo un’affermazione di principio;

  • se propone il proprium dell’esperienza mistica cristiana oltre un vago mondo di emozioni religiose. La gente a noi chiede la fede e se chiede i sacramenti soltanto, noi dobbiamo fare scommesse, scavare nelle domande per non offrire solo risposte;

  • se aiuta a far sintesi tra fede e vita, tra fede creduta e fede testimoniata attraverso uno stretto legame con la fede celebrata. Parliamo spesso male delle funzioni religiose, ma sono spesso l’unica possibilità di dialogo con la gente e l’unico servizio che diamo per alzare lo sguardo a Dio e ascoltare il vangelo;

  • se ricupera tutta l’esperienza liturgica come ponte e anello di congiunzione tra verità e storia, tra pensiero e azione, come luogo generatore di vita e cultura, come concezione dell’uomo, come interpretazione della storia e dei suoi problemi, della vita morale e delle sue possibilità, superando la frattura tra vangelo e cultura. Quante volte le celebrazioni liturgiche sono state determinanti per la vita e le scelte delle persone, delle famiglie e anche della vita pubblica di una città, della storia di un paese, entro eventi drammatici. Pensiamo per esempio alla famosa testimonianza di perdono del figlio ai funerali di Bachelet che ha iniziato a erodere la falsa sicurezza delle Brigate rosse, oppure ai funerali delle vittime del terremoto dell’Abruzzo, ai riti semplici popolari e partecipati dei sacramenti, alla solidarietà che si crea di fronte a una calamità nei riti popolari che uniscono la gente credente e no…

  • se dà unità all’atto educativo e si pone al servizio della formazione integrale della persona. Non si può soprattutto oggi educare a compartimenti stagni, non ne nasce nessun cristiano, ma solo schegge impazzite di fissazioni e tradizioni.

Tali condizioni non si pongono solo come paletti di ortodossia, ma sono anche in se stesse orientamenti e definizioni di un progetto educativo completo, hanno in se stesse forza di programma e intuizioni di metodo. Sono più presenti di quanto pensiamo nella vita della comunità cristiana e civile.

O lasciamo tutta la vita liturgica, tutta quella pratica religiosa spesso saltuaria, spesso tradizionale, fuori dalla vita vera, e per molti così avviene, o con pazienza educativa costruiamo con essa un ascolto e accoglienza docile dei doni di Dio e li facciamo diventare le fondamenta di una vita degna di essere vissuta e proposta.

In questa prospettiva possiamo rispondere a una scelta del concilio che è quella di applicarsi a un’educazione che «deve mirare alla perfezione integrale della persona umana, al bene della comunità e di tutta la società umana. Perciò è necessario coltivare lo spirito in modo che si sviluppino le facoltà dell’ammirazione, dell’intuizione, della contemplazione, e si diventi capaci di formarsi un giudizio personale e di coltivare il senso religioso, morale e sociale» (GS 59). Questa è la mistagogia e questi sono tanti buoni motivi per lavorare in questa direzione.

La posta in gioco è alta, anche perché, di fronte a una pratica tradizionale dell’amministrazione dei sacramenti, per una buona fetta di gente che partecipa all’Eucaristia domenicale non corrisponde un progetto educativo globale e uno sforzo di passare dal liturgico privatistico al liturgico vitale determinante la vita globale della persona.

Le difficoltà sono enormi, ma non si può abbassare il livello della proposta, se ne devono cercare graduali passi di approfondimento, di cambiamento di mentalità, di rafforzamento dell’identità.

 

 

I soggetti dell’educazione: la comunità, gli adulti e le famiglie

 

Detto della necessità di educare è importante mettere al centro i soggetti che rendono possibile questo esercizio spirituale su di sé prima che sugli altri.

La comunità cristiana è il primo soggetto, il grande responsabile dell’educazione, non da sola, non isolata, non autosufficiente, ma aperta e capace di mettersi in gioco, con un’esplicita intenzionalità. Niente avviene a caso, tutto avviene per dono di Dio e per corresponsabilità dell’uomo. È la comunità che sente di aver bisogno di Dio che educa il suo popolo, che si lascia educare da Lui, che sa mettersi in discussione e in stato di conversione continua. Solo così può sentirsi poi soggetto educante ed essere in grado di porre sempre dei segni, che fanno capire che le sta a cuore il servizio ad ogni uomo.

Ma siamo in molti a lamentarci che non siamo comunità, che la parrocchia spesso è un’accozzaglia di persone che vengono a chiedere piuttosto che un popolo affiatato che dona. Già il chiedere è meglio dell’indifferenza, apre nella vita un varco, una domanda su cui si può inscrivere un percorso di crescita. Il modello di vita e di comunione trinitaria ci sta sempre davanti come una grande meta, mai adeguatamente raggiunta. L’educazione non è omologazione, ma sicuramente è frutto di una grande comunione La parrocchia non è all’anno zero del suo lavoro educativo, anzi molta attività è educazione dei bambini e dei ragazzi, dei fidanzati e dei giovani. E una lotta impari alle forze umane, ma siamo sicuri che Dio ama il suo popolo, Dio e la sua vita donata fino all’ultima goccia è il suo progetto. L’anno liturgico offre un percorso formativo che alla lunga influisce ed è più pervasivo di tante attività di gruppuscoli o di battitori liberi.

Ma la comunità deve vedere l’ossatura della sua espressione educativa nel mondo adulto. Non sempre gli adulti si lasciano educare. La sindrome di aver imparato tutto blocca tante proposte. Occorre suscitare prima di tutto in loro la domanda di educazione e questo avviene se la comunità dà l’esempio nel mettersi in discussione, in dialogo, in stato continuo di conversione e di apertura. L’adulto è per statuto antropologico educatore, è colui che deve offrire ragioni di vita e va aiutato a trovare sempre queste ragioni nel vivo di relazioni nuove e significative con la comunità cristiana. Le ragioni di vita non le trovi in internet o nei libri, ma nel tessuto vivo di una comunità che segue e annuncia Cristo.

L’espressione più altamente educativa dell’educazione, come mattone di base di ogni costruzione è la famiglia, che ha direttamente un mandato educativo inalienabile datole dal creatore perché è in essa che sgorga la vita e la necessaria educazione di essa e dalla Chiesa nel sacramento del matrimonio, che abilita a una vita piena, come quella che il giovane ricco chiedeva a Gesù. La prima semplice mistagogia avviene lì, la prima sintesi tra fede e vita, tra domanda e ascolto, tra pensieri e azioni è fatta sulle ginocchia della mamma, con la mano nella mano del papà, nella tensione positiva di crescita tra fratelli, nella trasmissione di sentimenti tenui, ma quotidiani dei nonni. Il senso della preghiera nasce lì. La comunità deve sbilanciarsi in questo tempo pastorale dedicato all’educazione dalla parte della famiglia, pur consapevole di tante famiglie fragili, distrutte e invivibili.

 Annuncio, celebrazione, testimonianza: un’unità necessaria per educare cristiani maturi

 La scelta di questi tre ambiti non è un privilegiare alcuni uffici pastorali e dimenticare o sottovalutare gli altri, forse anche quelli più concreti e più percepiti dalla gente; non è dimenticare i giovani, o il lavoro o le missioni, ma mettere in evidenza le forme che devono investire ogni pastorale, ogni attenzione formativa. Annuncio, celebrazione e testimonianza sono da declinare in ogni struttura pastorale, in ogni soggetto o condizione del cristiano e non sono esclusiva degli uffici liturgico o catechistico o della caritas. Non ci confrontiamo con tre uffici, ma con tre dimensioni che stanno alla base di un progetto educativo specifico di una comunità cristiana. Che fa la pastorale giovanile se non si definisce nell’annuncio, nella celebrazione e nella testimonianza e così la famiglia, il lavoro, le missioni… Ciascuno con il suo taglio, la sua riscrittura intelligente, mette a disposizione di tutti la sua peculiarità e stana da giovani, famiglie, lavoratori, operatori dei mass media tutto quanto di bello possono mettere a disposizione di tutti. È importante però che l’unità progettuale parta da queste tre dimensioni.

L’unità è possibile, attuabile, e, ancor prima di essere codificata in testi o programmi che si elaborano assieme, è scritta nella formazione di ogni credente che deve assolutamente farsi convertire dall’annuncio, essere attivo nella celebrazione e decidere di mettersi a disposizione nella carità. Se il percorso educativo globale che abbiamo scelto è sintesi di queste tre dimensioni non è possibile pensare l’educazione se non in una continua mutua relazione di annuncio, celebrazione e testimonianza, in una logica reticolare, in cui il punto di partenza è lasciato alla vita, alla creatività delle persone, alla complessità dei tempi moderni, alla liquidità della nostra società, dentro la quale lo Spirito esprime tutta la sua libertà. A noi tocca presidiare e dedicarci alle connessioni tra i diversi punti, garantire il massimo di relazioni e di passaggi. Non è importante oggi un prima e un poi temporale, assolutamente standardizzato, ma il processo completo nella sua globalità e quindi aperto a tutte le varie impostazioni culturali, che la comunità discerne. Il punto di arrivo è sempre questo conformarsi a Cristo, e geneticamente non temporalmente il primo passo è l’annuncio.

La distinzione delle tre dimensioni è necessaria perché ciascuno deve esprimere non solo un suo punto di vista, ma la ricchezza che le viene consegnata per costruire un’autentica esperienza credente. Annuncio, che già in se stesso non può non contenere l’unità con la celebrazione e la testimonianza, oggi è soprattutto primo annuncio, come dimensione normale nella quotidianità dei cammini formativi parrocchiali e no. Ogni intervento formativo non deve dare per scontata l’adesione di fede, ma deve continuamente renderla incandescente, perché così lo esige la nostra vita, la complessità e il cumulo di distrazioni della nostra società. La celebrazione è farsi convertire dai sacramenti e non solo prepararsi ai sacramenti, è tenere l’uomo al suo posto e aiutarlo a farsi accogliente di un mondo altro che illumina il suo, che lo aiuta a dare senso al suo presente. È investire del dono di Dio la persona anche nella sua corporeità. È presidiare la vita cristiana perché l’annuncio cristiano non si trasformi in propaganda, l’impegno di testimonianza non perda il suo vero sapore e la preghiera non degeneri in evasione. E collocare nella vita un giorno del Signore, assoluto, indisponibile, ma tanto decisivo nel costruire persone mature e nuove e non cristiani a intermittenza. La carità è dono di Dio da accogliere proprio contestualmente all’uomo da servire, è impostare la vita sulla logica del dono e non dello scambio. Lo scambio misura ogni cosa, persone comprese; il dono le accoglie e dimentica pesi e misure.

Una comunità cristiana mentre educa è segno di salvezza per il territorio

 La responsabilità educativa non è un insieme di parole o per riempire la bocca, la comunità cristiana non è fuori del territorio, non si ritira su nessun Aventino, ma facendo evangelizzazione fa il bene del territorio, delle istituzioni, delle strutture della società. La fedeltà alla parola di Dio e alle indicazioni del concilio ci aiuta ad allargare le nostre vedute e a coltivare sogni. La Chiesa non coltiva solo sogni, ma sa concretizzarli con segni (Bregantini), che accompagnano, stimola, fanno crescere responsabilità nei confronti della giustizia, della pacifica convivenza e della solidarietà con i più poveri.

 Necessità di darsi un progetto educativo

La parola mistagogia sembra troppo interna al mondo ecclesiale, ma nei significati che abbiamo espresso è proprio sbilanciata dalla parte di una coniugazione dell’esperienza credente entro i processi formativi della vita. Spesso in questi tempi pensiamo che educare sia offrire esperienze coinvolgenti, belle emozioni anche fortemente spirituali e celebrative, lectio divine solide. Invece vediamo sempre di più come occorre accompagnare le persone con un percorso fatto di mete, di strumenti, di passi semplici e collegati, per non creare talebani o smidollati. L’unità degli interventi educativi esige di avere un progetto, di costruire sequenze ordinate nel processo secondo una visione globale della persona. La mistagogia ha il vantaggio di non farci deviare in pedagogismi che non arrivano mai alla meta, ma di ancorare ogni progetto all’essenza della vita credente. Le comunità diocesane danno dei grandi contributi con i progetti pastorali, la Chiesa italiana lo codifica di decennio in decennio. È importante però scrivere questi contributi entro un progetto che viene sostenuto giorno dopo giorno, per ogni età. Non posso non riferirmi alle grandi capacità di progettazione formativa che hanno le associazioni ecclesiali. In particolare posso testimoniare la serietà progettuale dell’Azione Cattolica, che aiuta tutti a percorrere cammini di formazione con un progetto formativo globale e soprattutto a preparare educatori con un tirocinio severo di santità e di competenza educativa.

La figura di educatore appassionato e solido che abbiamo contemplato in Giovanni Modugno e l’esperienza della parrocchia santuario dei Santi Medici ci dicono che è possibile invocare da Dio santi educatori anche per i nostri giorni e costruire comunità, parrocchie altamente formative nell’unità tra annuncio, celebrazione e testimonianza abbondante di carità.

 

Domenico Sigalini

  

 

Lettera di una famiglia alla parrocchia

 

Cara parrocchia, siamo una famiglia del tutto normale, abbiamo tre figli, in casa anche i nonni e una zia, che ci aiutano qualche volta a litigare, spesso a costruire relazioni di maggior tolleranza e comprensione.

Oggi sentiamo un po’ di stanchezza soprattutto nell’educazione dei figli. Non ci ascoltano, vengono solo a chiedere coccole e mance, a strappare permessi o a nascondere malefatte. Noi siamo credenti, ma i nostri figli se ne vanno a uno a uno dalla chiesa; l’ultimo ha appena fatto la cresima ed è già in fuga. L’ha preparata bene arrotolando lenzuola e segando sbarre da almeno tre anni. Noi ce ne accorgevamo, ma non abbiamo potuto fare niente. Ci sembra tutto ineluttabile. Ci sentiamo soli nel contestare le idee strane che ci portano in casa, quando non dobbiamo tendere l’orecchio al loro cellulare, in attività perenne, per carpire le loro idee, i loro sogni sballati, almeno così sembra a noi. In questi tempi siamo ancora più nervosi perché i soldi non bastano più e viviamo nella paura che a qualcuno venga a mancare il posto di lavoro.

Ma tu che fai? Che cosa hai fatto a questi nostri figli da lanciarli così lontano. Come mai non gli è rimasto in testa niente di tutti gli anni di catechismo che avete fatto? Certo ci preoccupa la loro fede, ma oggi ci assilla la tenuta morale, sociale, umana delle loro vite. Abbiamo perso la voglia di battagliare, di offrire visioni di vita diverse, di ascoltarli fino in fondo, forse. Vediamo che hanno ancora più bisogno di noi perché hanno mille decisioni da prendere e sono soli nonostante le nostre prediche o forse perché sono solo prediche. Ci serve una comunità in cui poter incontrare la forza di quel Dio in cui crediamo, ed essere aiutati a tornare all’ incandescenza del nostro amore. Veniamo a messa, ma ci sembra di non essere in grado di capire quel che ci proponete. Avete un modo per ricucire nelle nostre coscienze vita e fede, verità e storia, vangelo e cultura, celebrazioni e gusto della vita?

Sappiamo che la nostra fede è troppo povera, rimasta al catechismo che abbiamo imparato a mozziconi durante gli anni ruggenti delle battaglie politiche. Abbiamo perso autorevolezza. Ce l’hanno tolta senza accorgerci, come l’hanno tolta alla famiglia, alla scuola, alla Chiesa. Abbiamo bisogno di tornare a imparare, ci vergogniamo di dirlo, ma ci sembra la cosa più vera. Non è un ritorno a una giovinezza che sfuma, ma una voglia di nascere di nuovo, per essere per noi stessi e per i nostri figli un segno della bontà di Dio e della sua decisione di prenderci in carico sempre e in ogni loculo in cui ci possiamo essere cacciati.

Ci aspettiamo di essere aiutati a diventare educatori autorevoli, pazienti e pieni di speranza.

 La famiglia che hai benedetto velocemente a Pasqua quest’anno

(Da Orientamenti Pastorali 7/2009 pagg. 2-11)

 

 

 

 

 

Domande per l’approfondimento e il dialogo, anche via e-mail:

 

1. Cosa, in questo testo di mons. Sigalini, ti colpisce e perché ?

2. Quanto Don Orione ha fatto per la questione educativa ?

3. Vuoi scrivere una qualche tua reazione al tema per farla circolare in internet ?

4. Concludi con una preghiera come frutto della lettura e della riflessione.

 

 

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