Messina – Dopo tre anni di attesa una parola chiara sulla Teologia della Liberazione «FREI BETTO»

2014_04_10-D_Savio-FREI_BETTONota a margine – Già il 2 aprile del 2011 Frei Betto O.P., era atteso a Messina, ma per motivi di famiglia fu costretto a rientrare urgentemente in Brasile. Ma ora lo potremo incontrare nella sede del

Teatro Domenico Savio il

10 aprile 2014 alle ore 17.00 

Dalla presentazione del 2011

Frei Betto O.P., al secolo Carlos Alberto Libânio Christo (Belo Horizonte, 25 agosto 1944) è un teologo, scrittore e politico brasiliano. Come scrittore è stato insignito del premio Jabuti e ha pubblicato 52 volumi.[senza fonte] Viene considerato uno degli esponenti della teologia della liberazione.

Impegno politico

Frei Betto, assieme al confratello Frei Tito, fu imprigionato e torturato nel 1969 dalla dittatura militare brasiliana per il suo impegno politico. Svolgeva alcune attività per conto del governo di Luiz Inácio Lula da Silva. Politicamente si ritiene un socialista cristiano ed è attivo nei programmi contro la fame nel mondo; è un forte sostenitore della politica di Fidel Castro e condivide con il castrismo la critica al capitalismo. [1] È stato assessore del programma Fome Zero (Fame Zero) del primo Governo Lula.

Recentemente, il 26 gennaio 2006, Frei Betto ha rivendicato la sovranità di Porto Rico insieme a molte figure di spicco della cultura latino americana – Gabriel García Márquez, Mario Benedetti, Ernesto Sábato, Thiago de Mello, Eduardo Galeano, ed altri. [2]

In Italia Frei Betto è noto per la sua collaborazione con la rivista “In Dialogo” – Notiziario della Rete Radiè Resch: www.rrrquarrata.it, termina la sua collaborazione alla rivista Nigrizia con il mese di dicembre 2009. Dal 2010 questa rimane l’unica collaborazione in Italia. La stessa, cura e organizza le conferenze di Frei Betto in Italia. Il 2010 lo vedrà presente in Italia dal 21 al 29 marzo. Frei Betto

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Da destra Frei Betto, due italiane della Rete Radiè Resch e Leonardo Boff La Teologia della liberazione

L’olimpiade dei bambini della strada era una delle tipiche ipocrisie della società brasiliana di oggi che- più offendevano la sensibilità di Frei Betto, mentre mi raccontava la sua vicenda di religioso e di intellettuale ribelle.

Era luglio e i dati spietati delle organizzazioni umanitarie segnalavano che, dal primo di gennaio al 30 giugno del ’93, per esempio, a Rio de Janeiro, polizia, vigilantes e guardie armate, quasi sempre impunite, avevano già ammazzato 321 minori e che a San Paolo, la città più avanzata del Brasile, l’anno prima la polizia militare, che continuava a

godere di impunità anche dopo l’avvento della democrazia, aveva ucciso 1370 persone, mentre quella civile soltanto 5. Dati riuniti in un libro che Betto mi aveva regalato: Rota 36, la storia della polizia che ammazza, un’opera del giornalista Caco Barcellos, frutto di scrupolosa investigazione giornalistica durata cinque anni e che in poco tempo era arrivata a 19 edizioni.

E non c’era ancora stata la strage degli otto bambini di Piazza della Candelaria, di Rio, uccisi nel sonno qualche settimana dopo, dai poliziotti pagati dai negozianti della zona, stanchi delle ruberie di questi piccoli lupi affamati.

Questa empietà, questo disfacimento che non si era fermato nemmeno con il ritorno della democrazia, veniva da lontano ed era forse per questo che, coraggiosamente, il presidente Itamar Franco, succeduto a Collor de Mello, aveva scelto, come tema del III vertice dei paesi latinoamericani, lo sviluppo sociale del continente, ma, evidentemente, non se l’era sentita di andare fino in fondo e per questo aveva fatto finta di non sapere di questa farsa dei meninos da rua tolti per tre giorni dalle strade di Bahia, durante il summit, per non infangare il buon nome del paese.

Mentre andavamo a trovare questa infanzia improvvisamente oggetto di attenzioni, anche se solo per qualche ora, Frei Betto mi spiegava come era stato naturale, per molti credenti, in una simile realtà sociale, cercare e trovare un impegno cristiano più militante.

“La Teologia della Liberazione fu il frutto di questa convivenza che vincolava, nelle comunità ecclesiali di base, la fede e la lotta per la giustizia. E queste comunità di base erano essenzialmente formate da gente povera.

“In Brasile ci sono 150 milioni di persone: 86 milioni sono poveri e la metà di loro vivono nella più assoluta miseria e sono, come dice l’Onu, ‘miserabili’. Ma è gente che ha una fede profonda e in America Latina non si va da nessuna parte se non si passa per la fede. L’essenza della vita popolare è segnata da due parole: la fede e la festa. In portoghese la fé significa anche festa e rappresenta la cultura dell’esistenza di questa gente. Così nelle comunità noi abbiamo saputo lavorare proprio tenendo presente questa dimensione esistenziale che, abbiamo scoperto, è anche una dimensione ludica. Ti sei mai chiesto perché nessun partito comunista è riuscito a portare a termine una rivoluzione in America Latina? Gli unici gruppi politici che l’hanno fatto non erano partiti comunisti: il ‘Movimento 26 luglio’ a Cuba e quello sandinista in Nicaragua. Io credo che il partito comunista con il suo ateismo ufficiale non comprendeva in sé la dimensione di festa, di cultura popolare. Sotto questo aspetto era antipopolare. Noi, allora, a metà degli anni ’60, avevamo preso coscienza che il marxismo è il miglior strumento d’analisi per capire la società capitalista e che la fede ha anche una dimensione sociale e politica. Tutto questo prima della formulazione della Teologia della Liberazione.”

“Quando è stata teorizzata per la prima volta la Teologia della Liberazione?”

“Il primo a farlo, come sai, è stato Gustavo Gutierrez, un peruviano del clero secolare diocesano che venne in Brasile alla fine degli anni ’60 per studiare i movimenti di base. Da questa inchiesta arricchita dalla conoscenza che aveva della realtà dell’America Latina, è nata la sua opera che è ormai un classico, Teologia della Liberazione. Fu pubblicata nel 1970 e dedicata a un prete brasiliano che lavorava con i giovani ed era stato assassinato dai militari. Il suo nome era Antonio Pereira Neto, Niki per tutti noi. La Teologia della Liberazione è dedicata a lui. Poi, questa strada è stata percorsa da molti. Fra i più importanti c’è Leonardo Boff. Ma ci sono anche altre testimonianze importanti, comprese quelle di molte donne, sposate con figli, che, attratte da questa interpretazione della religione, sono diventate dottori in teologia. È un fenomeno che in Brasile e in America Latina si sta espandendo.”

“Il quadro che tu mi hai fatto è abbastanza sconosciuto nel mondo occidentale. È un panorama che spesso sfugge anche a chi si occupa dell’America Latina. Perché, per esempio, il mondo occidentale vive in modo integralista la divisione tra marxismo e capitalismo, ignorando le contraddizioni e gli aspetti che tu mi hai sottolineato?”

“Io penso due cose. Primo: la cultura occidentale è assolutamente cartesiana, razionale. E la mentalità, la cultura marxista è indiscutibilmente positivista. Marx era un uomo del suo tempo e anche Hegel. Si sono lasciati influenzare da elementi positivisti con l’idea che l’umanità cammina in base a una logica scientifica. Questa è una sciocchezza, se la osserviamo oggi, ma aveva una consistenza nel suo tempo. Noi avremmo detto le stesse cose se avessimo vissuto all’epoca. Ma questo ha impedito al marxismo di comprendere, per esempio, le altre dimensioni della conoscenza umana che non è basata solamente sulla razionalità. San Tommaso ha detto una frase lapidaria: ‘La ragione è l’imperfezione dell’intelligenza’ perché nel processo di conoscenza la ragione è solo uno strumento. C’è poi anche la dimensione ludica, la sensibilità, il corpo. Ci sono molti modi di esprimersi, come la musica, la spiritualità, la sessualità, ma tutto questo è sconosciuto a una certa mentalità cartesiana, positivista e marxista. Secondo: non bisogna dimenticare la mancanza di contatto con il popolo, di lavoro con il popolo, di educazione della gente. Buona parte della struttura marxista è stata edificata dall’alto verso il basso. Io sono convinto, per esempio, che uno dei fattori del crollo del socialismo nei paesi dell’Est europeo è dovuto alla struttura zarista che ha dominato l’ex Unione Sovietica. Questo grande paese (come ognuno di noi è figlio del proprio padre), ha ereditato la struttura zarista. Così a me pare che il socialismo non si occupò, né lavorò mai per l’autonomia della società civile. Le idee venivano sempre dall’alto verso il basso. Non succedeva mai il contrario. Nella mia interpretazione (così come nel capitalismo lo stato gestisce gli interessi della classe dominante) il socialismo dovrebbe amministrare invece gli interessi della classe ‘maggioritaria’ della maggior parte della gente, insomma. Questa classe sociale dovrebbe essere autonoma, dovrebbe essere un soggetto politico. Ma questo, nella realtà, non si è verificato in nessun paese socialista.

“Il mondo occidentale è idealista, crede nella ‘idolatria dei concetti’. Ti faccio un esempio: il materialismo dialettico proclama l’inesorabilità del determiniamo della storia. Molti militanti marxisti pensavano che un comunista potesse bere tranquillamente il suo whisky dal momento che anche quando dormiva la storia camminava per il futuro del socialismo e del comunismo. Ed era una sciocchezza, perché la storia cammina se ha soggetti storici.”

“Che la cambiano.”

“Esatto. Il problema del marxismo è stato il pregiudizio nei riguardi dello spessore della cultura popolare e di quella religiosa. Il capitalismo ha avuto la saggezza di privatizzare i beni materiali e socializzare i sogni. Io sono un povero, vivo in una piccola casa, in una favela, però nella mia televisione posso vedere Hollywood, sognare la possibilità di vincere alla lotteria, per sorte o per trucco, o aiutato magari dalla magia… Posso insomma fruire di certe meraviglie. Il socialismo ha fatto il contrario: ha socializzato i beni materiali e privatizzato i beni simbolici. Nessuno ha diritto di sognare, solo il partito ha il diritto di farlo. Ma spesso erano sogni pericolosi. Quando la gente sogna, bisogna invece calarsi nella sua realtà e cercare alternative per le sue speranze.

Da Un continente desaparecido, Gianni Minà, pp. 188-192, Sperling & Kupfer editori, 1995

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