Acireale – «La presenza del “Cardinale Carlo Maria Martini”- al 1° Convegno delle Chiese di Sicilia-1985»

LA CHIESA SOTTO LA FORZA DELLA PAROLA: NELLA BIBBIA, NEL CONCILIO, NELL’OGGI

Card. Carlo Maria Martini
Grazie di cuore, Eminenza Reverendissima, per le Sue parole e per il Suo invito. Mi trovo tra voi con grande gioia, pur se sono un po’ intimidito, quasi impressionato da un’assemblea tanto vasta. Vedendo però che mi accogliete con amore e con affetto, mi sento a mio agio e quindi pronto a superare la difficoltà di parlare in un Con­vegno che ha avuto una così lunga preparazione. Rischio, infatti, di inserirmi dal di fuori non avendo avuto modo di seguire da vicino tutto ciò che è stato portato avanti in questi anni.
La mia presenza sottolinea anche uno scambio tra Chiese: poche settimane fa, Sua Eminenza il Cardinale Pappalardo era a Milano e parlava ai nostri giovani. Ho per Lui il messaggio di un bambino che gli ha servito la Messa: « Me lo saluti molto — mi ha detto —, gli porti il mio saluto ».
Un altro bambino mi ha scritto: « Grazie, grazie per avere invi­tato qui il Cardinale Pappalardo ».
Saluto cordialmente, a nome della Chiesa di Milano, tutti gli ec­cellentissimi Vescovi, i presbiteri, i religiosi, le religiose, i laici, l’intero popolo di Dio. Sono venuto qui come vescovo di Milano, Diocesi in cui vivono molti dei vostri fratelli, sorelle, amici: sono persone che incontro continuamente nelle Visite pastorali e che operano attivamente nelle parrocchie e nelle comunità.
Sono venuto tuttavia anche con l’interesse di vedere come si fa un Convegno ecclesiale, per riflettere e poter preparare meglio il pros­simo Convegno della Chiesa Italiana che si svolgerà prossimamente a Loreto, e che potrà quindi prendere esempio da questo.
C’è un altro motivo di gratitudine: voi mi avete offerto l’occa­sione di ripensare al tema della figura della Chiesa oggi, sotto la forza della Parola di Dio, a partire dalla Scrittura.

Questo tema mi ha per­messo di rintracciare un cammino iniziato tanto tempo fa, nel 1971.
In quell’anno mi trovavo a Roma, all’Istituto Biblico, e il Cardinal Pappalardo, da poco giunto a Palermo, mi invitò gentilmente a tenere, proprio a Palermo, alcune conferenze pubbliche perché si inaugurava l’Istituto teologico S. Giovanni Evangelista. Nei giorni scorsi ho ri­trovato gli appunti di quelle lezioni il cui titolo era: « La comunità cristiana dell’epoca apostolica e le nostre comunità ».
Rivedendoli, mi sono posto la domanda:
Che cosa è cambiato per me in questi 15 anni, a proposito di questo tema?
Che cosa è cambiato in sé, con quale diverso atteggiamento ci rimettiamo di fronte ad esso?
Sono così nate le riflessioni, molto semplici, che vi farò.
In un primo tempo, il titolo che mi era stato proposto per la mia relazione era: « Per un rinnovato stile evangelico del nostro essere Chiesa oggi: presupposti biblici ed ecclesiologici ». Mi sembra impor­tante spiegare anzitutto che cosa intendiamo per « oggi ».

Che cosa intendiamo per « oggi »
– Oggi costituisce per me un punto di arrivo di una riflessione iniziata 15-20 anni fa su questo tema, a partire dagli Atti degli Apo­stoli;
– Oggi è quello della Chiesa e della società italiana in cui il vostro Convegno si colloca. Per specificare meglio, possiamo dire: oggi a vent’anni dal Concilio Vaticano II, quindi in un momento in cui, come Chiesa universale, ci prepariamo a riflettere, con un Sinodo straor­dinario, su ciò che vuol dire il Concilio vent’anni dopo;
– Oggi 1985, l’anno del Convegno ecclesiale « Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini », in cui le due linee — evangeliz­zazione e comunione/comunità — si intersecano per interrogarsi sul­l’unità del cammino della Chiesa Italiana. È anche il 40° del 25 aprile 1945: il 40° di un’esperienza sociale, politica, culturale che, bene o male, c’è ancora e, per questo, ci impone momenti di riflessione;…(tratto dagli ATTI DEL CONVEGNO DELLE CHIESE DI SICILIA-1985)

Nota personale

Per chi ha voglia di “gustare” un intervento ‘profetico sulle conseguenze delle nuove tecnologie, l’uso di INTERNET e tanto altro, può continuare a leggere cliccando in basso su “continua a leggere” o aprire il  File PDF cliccando sul titolo iniziale LA CHIESA SOTTO LA FORZA DELLA PAROLA: NELLA BIBBIA, NEL CONCILIO, NELL’OGGI

. E’ un intervento di grande spessore, che ho potuto ascoltare dal vivo insieme al ‘mio Parroco Don Domenico Crucitti-

– Oggi, come ultimo scorcio del secondo millennio. Giovanni Paolo II fa spesso riferimento, con tono profetico, all’anno Duemila, chiamando il nostro tempo « tempo di Avvento », di avvento del terzo millennio.
Tra queste quattro coordinate dell’oggi, mi fermo brevemente sull’ultima, perché ci permetterà di approfondire la nostra riflessione.
Più volte mi sono chiesto, sfogliando i documenti e i discorsi del S. Padre, il motivo della sua insistenza sull’anno Duemila. Confesso che, prima della « Redemptor hominis » non avevo pensato molto all’imminenza del terzo millennio. Eppure quell’enciclica comincia con questa menzione, la sottolinea più volte, e poi, nella Bolla di indizione dell’Anno Santo, nuovamente il Papa ricorda « l’avvento dell’anno Duemila », per ritornare sul tema nell’atto di consacrazione e di affi­damento del genere umano a Maria.
Il Papa vuole, a mio parere, farci comprendere l’importanza del­l’oggi indicandone la svolta epocale. Il 2000, come realtà cronologica, non è particolarmente diversa dal 1999 o dal 2001. Segna tuttavia una scelta epocale che presenta alcune caratteristiche: infatti, grazie al processo accelerato della tecnica, ci troveremo in un momento della storia umana in cui, mai come prima, l’umanità potrà essere « una ». La molteplicità dei mezzi di comunicazione, di informazione, dei com- puters nelle case, darà agli uomini una straordinaria possibilità di co­municare tra loro in modo rapidissimo, in tempo reale, fin nelle situa­zioni più semplici delle famiglie.
D’altra parte, lo stesso progresso tecnologico darà all’umanità una formidabile possibilità di autodistruzione, di decretare il proprio sui­cidio attraverso la potenza delle armi distruttive.
Alla paradossale opposizione tra la potenza dell’umanità di essere « una » e quella di sbriciolarsi nel nulla, si aggiungono altre realtà che, forse, ci toccano nel quotidiano ancora di più. Nel campo del lavoro, la fatica dell’uomo sarà ridotta al massimo e il lavoro sarà quindi facile, agile, semplice: nello stesso tempo, però, difficilmente l’uomo riuscirà a dominare il progresso tecnico vincendo la disoccupa­zione e la fame.
L’insieme di queste contraddizioni impongono delle decisioni forti e drammatiche che, a mio avviso, Giovanni Paolo II intende sottoli­neare quando dice che oggi siamo alla vigilia di un momento epocale in cui l’avvenire dell’umanità sarà, assai più che nella storia prece­dente, oggetto di nostre decisioni libere, di scelte ragionevoli e corag­giose.
È proprio su questo punto che, nel desiderio di approfondire il titolo primitivo della relazione affidatemi, io leggo il nostro essere chiesa oggi per un rinnovato stile evangelico.

Essere Chiesa oggi
La domanda comincia a delinearsi:
Che cosa comporta oggi, in questo 1985, l’essere Chiesa, in po­sitivo e in interrogativo?
Ho trovato luce nelle relazioni preparate per questo Convegno, in particolare in quella del gruppo Teologico, che descrive l’immagine di Chiesa del presente ispirandosi ai
I – Lo stile evangelico di una Chiesa fondata sulla forza della Parolagrandi temi del Vaticano II. È mutato il modello del Vescovo; sono mutati i rapporti Vescovo- Presbiterio; è mutato il rapporto Vescovo-Laici; sono mutati i rap­porti Presbitero-Laici.
Alla radice di questi mutamenti ci sono la categoria interamente teologica della « comunione » — almeno come istanza —, e quella altrettanto teologica ma più con esiti sociologici o esperienziali, della « partecipazione ».
Si potrebbe riassumere, con queste e altre simili frasi, come l’es­sere della Chiesa oggi tenta di porsi in relazione con le necessità pla­netarie che si affacciano all’orizzonte.
Di conseguenza, l’interrogativo sul nostro essere Chiesa oggi si traduce in due domande:
– Siamo capaci oggi di essere Chiesa?
– Abbiamo veramente, come popolo di Dio in Italia, un « sensus ecclesiae » adeguato?
Riassumo alcune indicazioni che mi sono state scritte in vista del Convegno di Loreto e che presentano motivi di allarme.
Qualcuno, molto pensoso del tempo presente, dice che la fonda­mentale urgenza del Convegno della Chiesa Italiana, dal punto di vista ecclesiale, è il processo, piuttosto rapido negli ultimi anni, di sfoca­mento e di offuscamento del « sensus ecclesiae » nella Chiesa Italiana.
E ancora: nello stesso laicato cattolico più impegnato, per non parlare della situazione di larghe fasce del mondo giovanile, non si sa più bene che cosa significhi e che cosa implichi l’essere Chiesa. Il gran­de movimento pastorale e teologico che ha animato molti decenni del nostro secolo e che ha portato alla stesura della « Lumen Gentium », si sarebbe progressivamente depotenziato.
Bisogna nuovamente muovere verso una nitida e pura autocoscien­za di Chiesa.
Bisogna riprendere in modo libero e paziente l’educazione della comunità cristiana alla Chiesa.
Da voci come queste — che potrebbero essere diversamente cali­brate a seconda delle Ragioni e dei luoghi — nasce la figura più precisa per la ricerca della nostra riflessione. Procederemo secondo tre punti:
Come essere Chiesa oggi, con stile evangelico fondato sulla forza della Parola?
Come questo essere Chiesa si specifica, a partire dalla Bibbia, nella dottrina conciliare?
Come, infine, pone domande all’oggi della società italiana?

Vorrei esprimere, in sintesi rapidissima, le caratteristiche della Chiesa degli Atti degli Apostoli — di cui per molti anni mi sono oc­cupato a motivo dei miei studi —, di quella Chiesa cioè che, nascendo direttamente dalla forza del Vangelo, rimane punto di riferimento per ogni generazione.

Prima caratteristica-, la Chiesa degli Atti degli Apostoli è da com­prendersi in relazione al Cristo vivo e risorto. Essa è tutta relativa al Cristo, non soltanto nella memoria e nell’esempio di coloro che a Lui si sono affidati ma perché Cristo continua a vivere nella storia, nella vita degli altri uomini e delle altre donne che assumono lo stile, il cuore, la mentalità, l’agire di Cristo.

È il Vangelo come evento che continua nel tempo, è il Vangelo, specchio permanente della Chiesa che si fa realtà di vita, che continua a fare della storia la storia di salvezza.
Il libro degli Atti degli Apostoli nasce da questa grande intui­zione: la vita di Gesù non termina con la sua ascensione al cielo per­ché l’unica vicenda di salvezza continua nella storia attraverso coloro che portano il nome di Gesù e la sua Parola.
Siamo davanti ad una formidabile intuizione che introduce un nuovo modo di leggere la storia umana: Cristo è presente in tutte le pieghe della storia.
Cristo si moltiplica, per così dire, nelle diverse storie degli uo­mini che, avendo creduto alla sua Parola e lasciandosi cambiare inte­riormente dalla sua morte e risurrezione, lo testimoniano senza divi­derlo. È l’immagine del corpo nella sua estensione storica, oltre che nella presenza cronologica di coloro che, in un dato momento, costitui­scono la Chiesa. È l’unità diacronica della Chiesa, che si esprime mi­steriosamente nell’unità di ogni singolo con tutti coloro che credono, nell’unità delle diverse chiese con l’unica Chiesa, e quindi nelle diverse forme in cui molteplicità e unità vengono a rapportarsi nella moltiplicazione storica dell’unica esperienza di Cristo.
L’intera dinamica degli Atti degli Apostoli sta in questa intui­zione: i cristiani che si radunano a Corinto, a Troade, a Filippi, sono la stessa cosa di quelli che si radunavano a Gerusalemme o in Galilea.
Il problema della molteplicità e dell’unità è stato all’origine della meditazione di Luca nel libro degli Atti; in particolare, il problema dell’unità con il popolo ebraico, l’unico popolo legittimo erede della promessa. Noi — riflette Luca — che viviamo a Corinto o ad Atene e non abbiamo nessuna parentela quasi neanche culturale con l’unico popolo delle promesse, non siamo un altro popolo ma l’unico e iden­tico popolo dei salvati, che cammina nella storia. La meditazione degli Atti sta tutta nel conciliare la molteplicità delle diverse esperienze le­gittimandone l’unità, e quindi cogliendo il divenire storico dell’unico Cristo nella molteplicità delle esperienze dei credenti e delle chiese.

Seconda caratteristica-, l’unità nella molteplicità è data dallo Spi­rito. E questa, per Luca, è la soluzione del problema. La Chiesa di Cristo è la Chiesa dello Spirito: lo Spirito è realtà vivente che garan­tisce l’identità dell’esperienza di tutte le Chiese con quella della prima Chiesa di Gerusalemme, e con l’esperienza di Cristo stesso e dei suoi discepoli.
Si tratta di un’unità vivente — non semplicemente fondata su delle leggi o su dei contenuti — che permette di esprimere veramente il Cristo il cui Spirito, dono del Risorto, si trova nella molteplicità del tempo e dello spazio.
Per la Chiesa primitiva è quindi importante cercare di determi­nare le realtà in cui lo Spirito si esprime in maniera privilegiata: la Parola, l’Eucaristia, i Ministeri. La Chiesa diventa così una figura or­ganica: non uno spumeggiare di forze ma un corpo ordinato, con membra gerarchicamente correlate, un corpo storico e visibile che, in maniera continuativa, rivela la ricchezza delle esperienze dello Spirito.

Terza caratteristica: la Chiesa degli Atti è una comunità dinami­ca, sbilanciata, protesa in avanti. Nell’arco di pochi decenni la predica­zione cristiana raggiunge tutto il mondo conosciuto, tutto l’ecumene del primo secolo. Alla base del suo dinamismo c’è una precisa coscienza missionaria: la comunità si sentiva vitalmente relativa alla forza del Vangelo che, per sua intrinseca natura, è destinato ad ogni uomo.

Il Vangelo è: « potenza di Dio per salvare chiunque ha fede » (Rin 1, 16); «Guai a me se non annuncio Cristo» (1 Cor 9, 16); « Non possiamo non dire quello che abbiamo visto ed ascoltato » (At 4, 20); « Quelli che vivono non vivano più per se stessi ma per Lui » (2 Cor 5, 15).

Il dinamismo del Vangelo, la missionarietà delle primitive co­munità deriva da Colui che nel Vangelo è annunciato: Cristo Gesù, salvezza di ogni uomo. Il primato assoluto di Cristo, la sua incompa­rabilità con ogni altro salvatore, suscitano la caratteristica dell’aper­tura universale della Chiesa degli Atti.
Nasce lo stile di vita personale e comunitario dei fedeli: stile che rivela l’appartenenza a Cristo, stile di obbedienza allo Spirito, conti­nuamente assimilato dalla Parola e nell’Eucaristia.
Ci è facile cogliere, leggendo gli Atti, come la vita dei credenti fosse motivo di stupore e di ammirazione per la gente, incitamento ad aggregarsi alla comunità.
Talora la comunità che vive lasciandosi muovere dallo Spirito, incontra delle crisi, delle difficoltà che sembrano bloccare il suo cam­mino e però sfociano in una nuova missionarietà. Basta pensare al mar­tirio di Stefano e alla persecuzione contro la comunità di Gerusalemme, che segnano l’inizio della prima grande espansione e coinvolgono la stessa persona di Paolo che diventerà il grande missionario.
Queste, in sintesi, le caratteristiche della Chiesa primitiva, che sono i presupposti biblici dell’essere Chiesa nel tempo, dell’essere l’uni­ca Chiesa che permanentemente riproduce e fa rivivere il Cristo nella storia.

II – L’ecclesiologia del Concilio Vaticano II

Cerchiamo ora di riesprimere quanto abbiamo detto con l’accen­tuazione che riceve nella ecclesiologia del Concilio e quindi con il linguaggio che, a partire dalla Bibbia e dalle grandi intuizioni bibliche, viene riproposto.
Volendo una formula sintetica, possiamo dire: dalla Comunione la Missione.
Ci viene incontro l’icona biblica della vite e dei tralci (Gv 15). Il tema che più frequentemente è messo in luce nei commenti alla para­bola della vite e dei tralci è quello della comunione dei credenti con Cristo, comunione profonda e indispensabile.

Tuttavia la parabola ci permette di cogliere il tema della missio­ne, del dinamismo di una Chiesa strettamente legata a Cristo, nutrita dal suo Spirito, fatta corpo organico.
Questo dinamismo emerge da alcuni accenni espliciti del brano: i frutti da produrre, la scelta, l’invio dei discepoli da parte di Gesù. Però è anche palese dal contesto generale dei discorsi dell’Ultima Cena, che sono di addio e insieme di missione: essi annunciano l’imminente ritorno di Gesù al Padre, e preparano i discepoli a diventare, in forza dello Spirito Santo, la nuova presenza di Gesù nel mondo.
Dalla comunione, quindi, la missione: la Chiesa che si sente Cri­sto nella storia in virtù dell’unico Spirito, che assume una figura sto­rica dai contorni precisi, è la stessa Chiesa che è inviata continuamente per essere testimone fino agli estremi confini della terra.
Se pensiamo ai temi conciliari e teologici con cui viene espressa la realtà della comunione e della missione, noi dobbiamo riconoscere che, mentre la coscienza cristiana sembra avere assimilato il primo te­ma, appare ancora impacciata di fronte a quello della missione. Un impaccio dato dalle nostre condizioni particolarmente difficili di cristia­nità e non puramente a livello ideologico o mentale.
Il rinnovamento ecclesiale promosso dal Concilio ha aiutato i cre­denti a integrare la visione societaria funzionale esteriore della Chiesa in una visione più profonda che privilegia le categorie del mistero, dei doni dello Spirito, della comunione con Cristo.
Più lenta e difficile appare, a livello di coscienza capillare diffusa, la comprensione e l’attuazione del messaggio relativo alla missione.
È un fatto che io esperimento quotidianamente. Nella nostra Dio­cesi ci siamo fermati per un intero anno pastorale sul tema della missionarietà e ho scritto una lettera: « Partenza da Emmaus », nella quale ho espresso la difficoltà che le comunità cristiane sentono di fronte alla missionarietà. Mi sono servito dell’episodio biblico di Esaù e Gia­cobbe che lottano nel seno della madre.
C’è, infatti, dentro ciascuno di noi, lo spirito di Giacobbe che vor­rebbe andare lontano, occuparsi di chiamare tanti; e c’è però anche Esaù, il casalingo, colui che sta volentieri tra le sue cose, a curare il proprio orto. Citavo, al proposito, le parole di un bravissimo parroco della periferia di Milano, molto zelante e attivo, che un giorno mi disse: « Vede, io ho ventimila anime in Parrocchia. Ma le tremila che frequentano assiduamente mi danno talmente da fare, riempiono tal­mente il tempo di noi preti, che ce ne resta ben poco per pensare seriamente alle altre ».

Per questo ho detto che la fatica di una missionarietà vissuta quotidianamente ha a che fare con una situazione sociologica, con la situazione del tipo di cristianesimo che, almeno in certe regioni, vi­viamo.
Ci sono, magari, dei gesti generosi, con l’invio di alcune persone o di molti aiuti alle « terre di missione » ma in realtà non si sanno trovare le vie per guardarsi attorno con spirito missionario.
D’altra parte, il tema della missione non riguarda solo la Chiesa come soggetto, per ciò che essa può realizzare in sé ma chiama in causa anche le leggi e le modalità e i dinamismi concreti secondo cui la Chiesa si colloca e cresce nella storia, nella società.
È qui che il tema dell’emergenza e dei discernimenti affiora. Oc­corre l’analisi dei fatti contingenti, l’interpretazione delle situazioni, la comprensione di ciò che sta maturando nella vita concreta di tutti gli uomini, il confronto critico con gli eventi e le voci della cultura, la vicinanza coraggiosa a coloro che non hanno voce e mezzi per farsi sentire ed accogliere in un determinato contesto sociale.

A) Il messaggio teologico sul tema della missione, che parte dal Concilio, è aperto a ulteriori sviluppi, pone dei pilastri ma richiede un’ulteriore elaborazione dei principi. L’aver fondato strettamente, rigorosamente la missione nella comunione è un punto di riferimento che permette grande respiro. Rileggendo attentamente la « Lumen gentium » e la « Dei Verbum », ci accorgiamo che la comunione con Cristo, parola vivente del Padre, non è aggiunta alla vita dell’uomo ma è la sua verità ultima: ogni uomo, per il fatto di essere uomo, è chia­mato a partecipare al destino di Cristo, a diventare figlio di Dio in forza dello Spirito di Gesù Figlio unigenito. Dio si rivela per chiamare tutti alla comunione con sé. E questo suppone, quindi, che questa comunione fondi una vocazione e una missione, che è poi stile e vita della Chiesa. Quello che accade in coloro che vivono la comunione con Cristo deve accadere in ogni uomo, deve essere offerto ad ogni uomo, e non come qualcosa di aggiuntivo bensì come verità, pienezza e speranza della sua vita.

B) Per questo, il Vaticano II ha elaborato una antropologia cri­stiana, una visione dell’uomo a partire da Cristo, per mostrare come la fede in Cristo è l’interpretazione vera e autentica della vita umana. L’abbozzo di questa antropologia Io vediamo soprattutto nella « Gaudium et Spes ». Si tratta di un abbozzo un po’ frammentario, a carat­tere orientativo, anche perché sappiamo che la « Gaudium et Spes » è un documento travagliato. Le intuizioni furono tante ma mancò una ripresa unitaria, forse proprio perché la coscienza di Chiesa non aveva ancora maturato, a livelli globali, una visione unitaria.
Il compito di un approfondimento unitario ed organico di questa antropologia è dunque affidato dal Concilio alla teologia e all’impegno pastorale di tutte le comunità cristiane.
Lo scorso anno, nella Diocesi di Milano, dovendo programmare il Convegno catechistico diocesano, abbiamo concentrato, ad esempio, i nostri sforzi sulla Catechesi degli adulti e sulla figura del cristiano adulto. Ricordo che è stato difficile trovare del materiale elaborato, dal punto di vista antropologico, sulla figura del cristiano adulto oggi, che è appunto il riferimento della missione della Chiesa che tende a suscitare la pienezza di vita nel Cristo.

Inoltre, la visione culturale con cui il Concilio ha elaborato un dialogo in vista di un’antropologia cristiana, è mutata in questi vent’anni. Per indicare una data dei mutamenti possiamo assumere, come valenza emblematica, il famoso « Sessantotto ». Più difficile ancora è indicare i contenuti di questo mutamento culturale.

Rischiando qualche esemplificazione, diciamo che da un certo ot­timismo degli anni ’60, forse un po’ ingenuo, per la costruzione di una civiltà del benessere in cui tutto fosse armonicamente collegato, si è passati a un pessimismo, e talora a un disorientamento, circa il senso dell’agire umano. Le crisi sociali, in particolare la crisi giovanile e quella del lavoro, hanno contribuito a creare il senso di disagio e di paura. Dal « Sessantotto » in avanti, in toni meno accesi e però più dolenti per quanto riguarda le realtà sociali, economiche, politiche, la parola crisi copre molti aspetti dell’esperienza umana occidentale oggi.
Così, da una cultura umanistica incentrata sulla persona (allora abbastanza accettata, almeno in una élite culturale), si è giunti a una cultura strutturalista attenta piuttosto al gioco anonimo delle strutture.
Da una società industriale compatta, fiera di sé, fiduciosa nell’av­venire, si è giunti alla società post-industriale, inquieta e timorosa sul futuro.
Dalla fiducia nella collaborazione internazionale, si è passati agli irrigidimenti, alla corsa agli armamenti, al dilagare della violenza, della paura, agli equilibri del terrore.
La situazione di oggi è quindi diversa da quella degli anni Ses­santa e il nostro compito non è più semplicemente di applicare in maniera materiale le interpretazioni di allora. Piuttosto, partendo dalle acquisizioni fondamentali del Concilio, radicate sulla Parola e sulla tradizione cristiana, a noi spetta di capire, criticare, purificare e sal­vare il modo di vivere e di pensare d’oggi.
Il Concilio dà dei punti di riferimento assoluti, delle verità capaci di nutrire il cuore dell’uomo, apre degli orizzonti e induce un dina­mismo. Il dinamismo originario della Chiesa si deve ripetere oggi, se vogliamo che essa risponda alle esigenze che le stanno di fronte. Natu­ralmente, questo dinamismo rimane ogni giorno come un appello in­tenso alla singola persona.

III – I compiti della Chiesa nella società italiana d’oggi
Cerchiamo ora di riflettere sui compiti che la Chiesa, nel clima che ho descritto, è chiamata ad affrontare nella società italiana d’oggi, per essere fedele allo stile evangelico che emerge dalla Chiesa degli Atti degli Apostoli e della Parola di Dio. 

Mi limito a suggerire tre prospettive:
– l’apertura alla forza misteriosa della Parola nell’oggi;
– l’accoglienza delle provocazioni culturali;
– la dedizione al mistero della Parola nella vita e nella morte.

Primo: l’apertura nell’oggi alla forza misteriosa della Parola, alla forza della riconciliazione operante in essa.
La Chiesa sa di essere convocata e guidata dalla Parola fin dal­l’inizio: questo vale per la costituzione interna della Chiesa, per la sua interna economia e comunione, e vale anche per la sua missione culturale, per il suo dinamismo, per la sua apertura.
La Chiesa infatti sa che la Parola dalla quale essa è costituita, è la medesima Parola che era in principio, che ha creato il mondo e la storia, che viene in questo mondo dove illumina ogni uomo. Da questa certezza fondamentale parte il discorso.
Ci si interroga spesso sul linguaggio: come dobbiamo tradurre le cose perché siano capite dagli altri? Come possiamo uscire da un linguaggio troppo ecclesiastico e parlare, invece, il linguaggio della gente? Sono domande giuste, legittime. Tuttavia io voglio sempre chie­dermi innanzitutto come raggiungere quella forza della Parola e dello Spirito che è già operante nel cuore di chi mi ascolta, da cui la persona che mi ascolta è stata fatta, in cui riconosce la verità della sua vita.
È soltanto attraverso il riferimento alla Parola che posso arrivare a fare brillare, in chi in un dato momento è accecato sulla verità, l’espli­cita coscienza di questa Parola, disponendolo all’ascolto. Perché la
Parola risuona nel cuore di ogni uomo, grazie alla creazione e all’azione universale dello Spirito.
Non si tratta quindi soltanto di un lavoro di traduzione di ter­mini o di una catechesi ben fatta: si tratta di capire chi è l’uomo, chi sono le masse che mi stanno davanti, persone create da Dio, fatte inquiete da Dio finché non hanno raggiunto la coscienza di questo loro essere fatte.
Di fronte a un simile compito, noi ci imbattiamo nella gravissima difficoltà proveniente da una mentalità orchestrata in maniera da non riuscire a filtrare, ad accogliere le tensioni verso la trascendenza, che sono nel cuore di ciascuno. Ci troviamo di fronte a una cultura che fa dell’uomo la misura totalmente autonoma di se stesso e di tutta la realtà.

a) Per questo, credo che il primo compito della Chiesa sia l’edu­cazione a ritrovare la dimensione contemplativa della vita, in cui l’uo­mo si dispone all’ascolto. Posso dire per esperienza che c’è un grandis­simo desiderio di silenzio e di ascolto e che quando la gente viene aiutata a viverlo, si accorge che lo cercava. Quante volte mi sono tro­vato davanti a testimonianze di persone non credenti, o lontane dalla fede vissuta, che entrando nel Duomo al primo giovedì del mese e vedendo migliaia e migliaia di giovani, stretti gli uni gli altri in silen­zio assoluto, si sono sentite contagiate da un bisogno che era dentro di loro e che non avevano mai scoperto!

b) Un secondo compito di una Chiesa dinamica nella situazione presente, è quello di prendere molto seriamente la ricerca di una più profonda identità culturale da parte dell’Italia d’oggi.

Si dice che il popolo italiano nel suo insieme, pur con tutte le diversità di tradizioni, ha qualcosa di comunemente cristiano che si manifesta nella mentalità, nel costume, negli atteggiamenti etici di fondo. Se analizziamo le radici di queste tradizioni culturali, scopriamo evidenti e decisivi influssi provenienti dal cristianesimo.
Occorrerà illustrare questi influssi, mettere in luce la loro forza plasmatrice di veri valori umani, fare intendere come essi hanno creato unità tra correnti culturali diverse, si tratterà di metterli a confronto con i nuovi problemi della società italiana attuale.
Non riconosce forse lo stesso Concordato — che dovrebbe essere ratificato prossimamente — i valori permanenti della cultura cristiana cattolica per la nostra storia?
E non è quindi necessario e utile approfittare di tutti i mezzi per metterli in luce con le valenze profonde e con la figura di uomo che ad esse sottosta? Tante persone che hanno magari abbandonato la pro­blematica religiosa, potrebbero essere sollecitate a riesaminare il valore teorico e pratico — e non solo folkloristico — di questo discorso che diviene poi discorso sui valori etici assoluti, sulla trascendenza e sul­l’appello di fede, proprio a partire dalla constatazione di cultura po­polare, di santità, di arte, di realizzazione umane sprigionate, lungo i secoli, dalla fede cristiana.

c) Inoltre occorre saper esaminare criticamente gli atteggiamenti odierni verso la dignità della vita umana.
Da un lato è maturata una forte coscienza civile della libertà e della dignità della persona. Si fanno grandi battaglie, si impegnano mezzi, energie, tempo, per salvare tante vite umane dalla guerra, dalla malattia, dalla fame, dagli ambienti malsani.
Dall’altro lato, accanto a questi atteggiamenti costruttivi che af­fondano le loro radici nel senso assoluto della dignità umana, si regi­strano fenomeni di segno opposto: uccisione della vita nel suo sorgere o nel suo finire, corsa sfrenata agli armamenti, mentalità violenta, man­canza di rispetto del contesto fisico e psichico in cui la vita nasce, si sviluppa, paurosa diffusione della droga.
Una riflessione di insieme su questi atteggiamenti contraddittori, fatta con senso critico, con pacatezza, attraverso un civile e sereno dibattito, dovrebbe condurre a scoprire che non basta affermare con parole la dignità dell’uomo ma bisogna fondarla su principi che la sal­vaguardino veramente da ogni aggressione e strumentalizzazione. Tra que

sti principi emergerebbe anche che l’assoluta dignità dell’uomo de­riva, ultimamente, dalla sua apertura al mistero e dalla sua esclusiva appartenenza alle mani paterne di Dio.

d) Infine, va approfondito il diffuso appello ad una rigenerazione morale. Di fronte ai tanti casi di corruzione, al generale affievolimento del senso di responsabilità, alla crisi delle istituzioni, molte voci, in Italia, chiedono un rinvigorimento della coscienza morale.
Da qui l’appello ai beni morali, da cui nessuno si può sottrarre. Occorrerà far leva non tanto sulla denuncia rinnovata e amplificata bensì sul motivo per cui ci battiamo per i valori morali. Comprendia­mo allora la necessità di una riflessione decisiva sul bene, sulla natura del bene. Il bene è sì oggetto dei desideri dell’uomo, e però non è misurato da essi: sta al di sopra, li coordina, li misura, li dirige verso il nuovo, verso quell’unico trascendente mistero di vita e di amore che è l’inesauribile sorgente di ogni bene. Da un dialogo con la società sul tema della rigenerazione morale può nascere quindi l’appello alla profondità della Parola che ha creato l’uomo e che è ineludibile, se vogliamo discutere seriamente e oggettivamente su quanto si muove e ci sta a cuore.
Attraverso l’impegno di un confronto sui fenomeni culturali della società attuale, la Chiesa italiana serve a quella Parola a cui ogni giorno essa stessa deve obbedire per avere la salvezza.

Seconda: l’accoglienza delle provocazioni culturali.
Mentre la Chiesa, obbedendo alla Parola da cui è nata, si sforza di introdurre coraggiosamente e liberamente nella società culturale italiana, fermenti e aperture verso la trascendenza, nel desiderio che Dio sia riconosciuto come tale e che Cristo Signore appaia in tutta la sua pienezza, essa non deve dare per scontata, una volta e per sem­pre, la propria perfetta adesione alla Parola.
La Chiesa deve riconoscere nella sua storia concreta, quotidiana, le pigrizie e i ritardi che possono offuscare la sua obbedienza, e deve accogliere con gratitudine i richiami che Dio le invia.
Sono richiami derivanti dalla luminosità della Parola e si presen­tano come pungoli, stimoli, istanze di rinnovamento che lo Spirito Santo non manca di suscitare a tutti i livelli della vita ecclesiale.

 In particolare, alcuni richiami provengono dalla situazione cul­turale italiana: si tratta di fenomeni che introducono speciali modalità di rapporto della Chiesa con la società.
Un fenomeno che vorrei analizzare brevemente è quello della dif­fusa mentalità laicista: spesso ce ne lamentiamo e tuttavia restiamo in posizione di difesa o di deplorazione.
Per quel tanto che la mentalità laicista ha alla radice, di antiche o recenti incomprensioni, di chiusure che hanno generato chiusure, strumentalizzazioni, incapacità di dialogo sereno, rifiuto di riconoscere1 valori della tradizione cristiana, è chiaro che l’apertura al mistero di Dio è, per così dire, impedita e ostacolata. In questo senso è un fenomeno negativo, da purificare e superare continuamente, perché un atteggiamento aggressivo danneggia e degrada innanzitutto colui che lo vive, non colui contro il quale il male è diretto.
È però necessario domandarsi, al di là di questi atteggiamenti che sono condannabili e sbagliati, se non possiamo cogliere e comprendere l’esasperazione degenerata di alcuni sani valori di laicità, che la Chiesa riconosce come suoi. La Chiesa potrebbe così trasformare sempre me­glio il suo rapporto con la definitiva verità della Parola che in essa abita, in un atteggiamento di umiltà, di attenzione, di servizio, di ri­cerca del vero.
Davide seppe riconoscere come un ammonimento di Dio per lui anche le violente invettive di Simeide, il suo avversario.
Allo stesso modo la Chiesa italiana potrebbe ricavare frutti di sempre maggiore povertà, essenzialità, purezza, linearità da alcuni epi­sodi di laicismo che contraddistinguono certi settori della società ita­liana.
Divenendo così Chiesa sempre più libera, sempre più povera, sempre più coraggiosa, sempre più attenta ai bisogni dell’uomo, sarà in grado di ritrovare i valori profondi che ciascuno porta con sé, al fondo delle sue esasperazioni e delle sue critiche, e quindi di offrire motivo di riflessione, di discernimento nella verità e nella chiarezza in modo da aiutare tante persone a fare un certo cammino.
Tra le tantissime lettere che ricevo, mi stupiscono non poche let­tere di persone che, pur dichiarandosi lontane e incapaci di compren­dere l’agire della Chiesa, riconoscono in certi gesti, in certi modi di attenzione ai più poveri e ai più sofferenti, dei valori che anch’esse sentono. In questo modo acquistano fiducia, desiderio di attenzione e io penso che la Chiesa, nella misura in cui è rigorosamente se stessa, senza la minima concessione strumentalistica, può offrire un grande servizio alla società, composta di persone create da Dio, che sono quin­di mosse dallo Spirito, sia pure non come grazia inabitante ma come grazia attuale, come forza transeunte, e cercano di rendersi sensibili e

Terza: la dedizione al mistero della Parola nella vita e nella morte.sintoniche con il mistero di Cristo che attraversa il mondo.

L’ultima riflessione è su ciò che la Chiesa sente come dinamismo a par­tire dalla forza della Parola del Cristo vivente. L’ho chiamata l’espe­rienza del mistero pasquale nella vita e nella morte proprio perché sia chiara la vastità dell’azione della Chiesa.
Essa non è semplicemente, come talvolta la si potrebbe confon­dere, una realtà che ha funzione promozionale nell’ambito della società.
La Chiesa, nella sua sottomissione alla Parola, è innanzitutto do­minata dal centro della rivelazione di questa Parola che è il Mistero Pasquale, l’annuncio cioè della forza vittoriosa dell’amore di Cristo manifestato nella morte e risurrezione di Gesù.
La Chiesa, per essere se stessa in uno stile evangelico, non finirà mai di contemplare, assimilare, sviscerare l’infinita ricchezza dell’an­nuncio pasquale, e non si darà pace fino a quando ogni uomo non sarà raggiunto dalla speranza vivificante di questo annuncio.
I compiti che la Pasqua, rendendosi presente nell’Eucaristia, as­segna alla Chiesa, sono inesauribili.
In ordine al servizio che la Chiesa deve rendere alla società ita­liana, mi limito a due sottolineature.

a) La prima sottolineatura è che la Chiesa è chiamata a cogliere la forza salvifica della Parola nel suo realismo radicale, cioè l’amore di Cristo che sfocia nella risurrezione. Si sviluppa anche con la co­raggiosa accettazione della sofferenza, della cattiveria umana, della scon­fitta, del fallimento, della difficoltà.

Non è quindi una Chiesa che pretende unicamente di trionfare e di riuscire ovunque, perché sa che l’amore del Crocifisso vince le realtà di male penetrando in esse, non eludendole. La Chiesa non ha l’ansia dei risultati immediati; più che al cambiamento delle cose tende al cambiamento degli atteggiamenti personali e sa che a questi atteg­giamenti Cristo ha contribuito con la croce non meno che con la sua predicazione o con la forza dei miracoli.
La Chiesa sa che la vittoria ultima è il dono ultraterreno, la vita eterna che fin da ora viene direttamente in noi dal cuore del Padre, che è realmente anticipata nella vita di grazia e di cui ci è dato leggere reali anticipazioni in quelle parziali vittorie su ogni tipo di male, che vengono raggiunte su questa terra.
Questa visione pasquale di vita eterna, che è l’ultima vera, piena nostra destinazione, è ricca anche di conseguenze sociali. Se infatti qual­cuno, per potersi impegnare di fronte a un male concreto storico, tra i tanti che continuamente nominiamo, pretendesse di vedere un esito immediato e soddisfacente totalmente al suo impegno, si condanne­rebbe a pericolose e frustranti delusioni.
Occorre, da una parte, tendere a esiti efficaci, e però, dall’altra parte, occorre poter credere che l’impegno vale per se stesso: perché è amore, perché è Vangelo, perché è amore del povero e del nemico, anche se permangono le difficoltà.
Noi abbiamo ricevuto dal Signore — e gliene rendiamo grazie! — un amore pasquale e un messaggio di speranza che è al di là della nostra fragilità sempre risorgente, che ci rende incrollabili di fronte ai pericoli e alle sconfitte. Si pensi all’invincibile forza dell’amore can­tata da Paolo nella lettera ai Romani, al c. 8, e nella seconda lettera ai Corinti, all’inizio! Il cristiano entra in tutte le difficoltà della vita ecclesiale e sociale con l’intento di superarle, e le supera innanzitutto chiedendosi come entro quelle difficoltà l’amore può produrre pazienza, coraggio, perdono, tolleranza. Oltre ad essere virtù tipicamente cristia­ne, questi atteggiamenti sono indispensabili per una corretta e ragione­vole convivenza sociale.

b) La seconda sottolineatura che ci viene dalla forza salvifica della Pasqua, vista nel suo totale realismo, è la scelta preferenziale della Chiesa per i poveri, i sofferenti, gli  emarginati, coloro che non hanno voce e che non hanno lavoro, la scelta preferenziale per coloro che maggiormente soffrono i pesi, i disagi, i drammi e le disperazioni della vita.
La Chiesa deve certamente avere a cuore l’insieme della promo­zione, dello sviluppo della società. Non si può tuttavia rimproverare alla Chiesa se, nella visione di globale sviluppo e promozione, si preoc­cupa e dà voce con particolare vigore e insistenza, a coloro che sono i « vinti » nel cammino che la società tenta di fare nel suo sviluppo per il comune benessere.
La Chiesa, nell’annunciare l’amore pasquale ai più sofferenti, sa che questo amore, pur cercando di togliere fin dove è possibile la sof­ferenza, si esprime pure all’interno della sofferenza.
Quante volte il ministero pastorale ci porta a visitare i malati più gravi, gli incurabili! E quale testimonianza del mistero di Dio ci viene rivelata! Qualche giorno fa ho visitato un giovane di 35 anni: fino ai 14 anni è rimasto sulla carrozzina e poi a letto. È spastico, quasi incapace di movimenti e continuava a ripetere: « Ti ringrazio mio Dio! Come sei buono Gesù, Ti lodo e Ti benedico, Signore, per ciò che fai per me! ». Io ho potuto vedere la potenza della risurrezione di Cristo, ho compreso che lì la Chiesa toccava il suo culmine perché la debolezza umana era vinta da una gioia immensa, anticipazione della vita eterna.
La Chiesa quindi, mediante iniziative proprie o appoggiando quel­le di altri, collabora a togliere o ad alleviare il dolore che c’è nel mondo e tuttavia sa di avere una missione specifica e diretta da svolgere, pur nel rispetto delle altrui competenze, verso ogni uomo che soffre, per qualsiasi motivo e in quanto soffre: sia esso malato, handicappato, emarginato, drogato, carcerato. La Chiesa deve annunciargli la presenza di Cristo, deve dirgli che nella sua condizione è possibile far nascere un germe di amore, è possibile iniziare un cammino di riconciliazione, percorrere una strada autentica di conversione e di verità. La Chiesa deve dirgli che se riesce a credere all’amore e a vivere nell’amore, ha già trovato la salvezza.
Alla vostra Chiesa auguro di poter esprimere in questo Convegno uno stile evangelico come quello che ho cercato di descrivere.

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